Degustazione dei vini della Tenuta del Buonamico presso l’Hotel Bulgari di Milano

Ecco  le considerazioni di Cesare Pillon, relatore presso l’hotel Bulgari di Milano, della degustazione dei vini della Tenuta del Buonamico del 20 Settembre 2010

Conscio dei miei limiti di assaggiatore autodidatta, accol­go sempre con titubanza l’invito a guidare una degustazio­ne, soprattutto se gli interlocutori sono, come in questo caso, dei sommelier professionisti. Non voglio correre il rischio, come si dice a Torino, dove sono nato, ’d mustreie ai gat a rampiese, cioè di insegnare ai gatti ad arrampi­carsi, visto che lo sanno fare molto meglio di me. E allora perché sono venuto qui stamattina? A spingermi è stato un sentimento che assomiglia molto alla nostalgia. Una nostal­gia che il mio vizio di conservare le carte del passato mi permette di documentare.

Ecco: queste sono le fotocopie della copertina e di due pa­gine dell’inserto pubblicato dal settimanale il Mondo, di cui ero allora redattore capo, che segnò il mio esordio professionale nel mondo del vino. Era un inserto che consi­gliava 100 vini a Doc da comprare, e uno di questi era pro­prio il primo di quelli che degusteremo stamattina, il Mon­tecarlo bianco della Fattoria del Buonamico. Vi prego di osservare la data: 24 agosto 1979. E’ da 30 anni, insomma, che questo vino, che mi aveva fatto conoscere Romano Fran­ceschini, patron del ristorante da Romano, a Viareggio, fa parte del mio vissuto.

Ho accettato di proporvelo con questa degustazione perché dopo tre decenni è stato una riscoperta anche per me. E as­saggiandolo insieme cercheremo di capire come mai, nel frattempo, sia finito nel dimenticatoio. Perché era un bianco di successo, nel 1979, il Montecarlo, e lo era per merito della Fattoria del Buonamico, azienda leader della zona, che faceva parlare di sé anche fuori della Lucchesia per via della sua insolita storia: era stata creata nel 1964 da una famiglia di ristoratori di Torino, il cui lo­cale si chiamava, e si chiama tuttora, Gatto Nero, a ripro­va di quanto riprovevole sia la convinzione superstiziosa che il gatto nero porti jella.

Comunque, a portar fortuna al Montecarlo Bianco non era soltanto il Gatto Nero: era il suo stesso nome. Stupisce tutti apprendere che questo vino si chiama così perché na­sce nel territorio di un comune italiano che ha lo stesso nome della capitale del principato di Monaco. Va detto però che il paese in questione è chiamato Montecarlo fin dal 1355: si chiama Monte perché è situato sulla dorsale che separa la Val di Nievole dalla piana di Lucca, e Carlo per rendere omaggio a Carlo IV di Boemia, figlio del liberatore di Lucca dall’occupazione pisana.

Il borgo era stato appena riedificato, a partire dal 1333, per raccogliere presso la rocca del Cerruglio gli abitanti di una comunità distrutta dai fiorentini nel 1331 che si chiamava Vivinaia. E qui arriviamo al motivo per cui ve l’ho fatta così lunga con questa storia: Vivinaia aveva quel nome perché era la località più significativa situata lungo un’antica strada romana, la Via Vinaria, che attra­versava la collina da est a ovest. Denunciava quindi fin dal nome la vocazione enoica del suo territorio. Vocazione di cui esistono testimonianze scritte successive, la prima delle quali risale all’anno 846, ed è un documento che par­la di “rendite livellarie in natura, consistenti in vino puro, di una uva pigiata tre volte secondo le regole e poi svinata”.

Poteva quindi essere ignorato, il Bianco di Montecarlo, da Francesco Redi nel suo celebre ditirambo “Bacco in Tosca­na”? No che non poteva. E difatti vi compare con questa de­finizione: “E’ vero oro potabile/che mandar suole in esi­lio/ogni male irrimediabile”. Purtroppo non sono un gran che, questi versi, però documentano che anche allora il vi­no prodotto in quella zona godeva di una vastissima noto­rietà. Non è difficile capire perché: fa sensazione ancor oggi, in una provincia storicamente povera di eccellenze enologiche come quella di Lucca, scoprire che vi si produce un vino di insolito livello, soprattutto se è un bianco in una regione di rossi come la Toscana.

E a questo punto viene naturale una riflessione: se il vino di Vivinaia era già famoso in epoca romana, e lo è rimasto anche come Montecarlo fino al 1600, quando lo cantò France­sco Redi, e poi ancora fino al 1979, come testimonia il mio inserto sul Mondo, vuol dire che è il territorio a impri­mergli qualità e personalità, non un particolare vitigno, perché nel frattempo è molto probabile che le uve con cui è fatto siano cambiate, nei due millenni trascorsi.

La domanda più logica è quindi: con quali uve è fatto ades­so? Io chiederei che intanto ce lo servano, mentre rispon­do. Il Montecarlo bianco è fatto per il 40% con Trebbiano toscano, e questo non può ovviamente stupire nessuno, trat­tandosi dell’uva bianca più diffusa nella regione. Ma il restante 60% è di uve tipiche della Francia: c’è un 20% di Pinot bianco, che è un vitigno della Borgogna, un 20% di Sauvignon Blanc e un 10% di Semillon, che appartengono alla tradizione del Bordolese, e un 10% di Roussanne, che si coltiva nella valle del Rodano.

Il Montecarlo bianco di oggi è quindi un SuperTuscan? Nean­che per sogno. Secondo la vulgata diffusa nella zona, negli anni 70 del 1800, un appassionato viticoltore di Montecar­lo, Giulio Magnani, a quel tempo proprietario della fatto­ria Marchi-Magnani, si recò in Francia con un obiettivo ben preciso: trovare in quel paese, che era riuscito a far ap­prezzare i suoi vini in tutto il mondo, varietà nobili da miscelare con il Trebbiano per ottenere un bianco più aro­matico, più morbido, più profumato, più accattivante. Fu lui insomma, portando a Montecarlo quei vitigni, a generare l’anomalia lucchese. Anomalia che era espressa, a livello popolare, da una definizione piuttosto approssimativa del vino, che veniva chiamato “lo Chablis di Montecarlo”,.

Proviamo adesso a esaminarlo, questo Montecarlo Bianco del­la vendemmia 2009 firmato dalla Fattoria del Buonamico. Vi­nificato e affinato in acciaio inox a temperatura control­lata, ne sono state prodotte, come ogni anno, 45 mila bottiglie. Il suo tenore alcolico è di 13 gradi, il colore è quello dei bianchi che non hanno soggiornato nel legno: giallo paglierino con riflessi verdognoli. Per non insegna­re ai gatti ad arrampicarsi, mi limito a notare che il pro­fumo è intenso, fresco, con toni floreali e una piacevole nota di frutta, con la pesca bianca in primo piano. Nota che si ritrova in bocca, con una sfumatura di mandorla, e ha buona persistenza.

E’ un vino di carattere, con una personalità aromatica ni­tidamente riconoscibile, e si può quindi capire che sia stato, in qualche momento, il bianco più rinomato della Toscana. Nel 1930, per esempio, fu servito addirittura al Quirinale per un evento allora molto importante: le nozze del principe Umberto con Maria Josè del Belgio. Probabil­mente è stata proprio questa notorietà a nuocergli, inco­raggiando nei produttori una assuefazione al tran tran che ha progressivamente svuotato il loro prodotto di fascino ed eleganza, ha accentuato la loro rusticità, ma soprattutto ha determinato una paralisi propositiva proprio negli anni in cui il vino non veniva più percepito come alimento ma come bevanda voluttuaria con importanti risvolti culturali, anni in cui il rinascimento del vino italiano, soprattutto in Toscana, si manifestava attraverso il moltiplicarsi di offerte sempre più intriganti.

Bisogna riconoscere che l’eclissi della Doc Montecarlo ha coinvolto suo malgrado la Fattoria del Buonamico, perché questa ha sempre conservato la propria vivacità produttiva, anche quando la famiglia Fontana non le aveva ancora im­presso nuovo entusiasmo, assumendone la proprietà. Lo te­stimonia il secondo vino in assaggio, un bianco che del Montecarlo rappresenta un’interessante evoluzione ma è una creazione esclusiva di questa azienda. Prodotto per la prima volta nel 1990, è un bianco di corposa struttura, im­portante e molto particolare, impensabile senza l’uso del legno piccolo. Ed è stato chiamato Vasario in onore di Giorgio Vasari, poliedrico personaggio rinascimentale che fu il primo storico dell’arte, ma era anche architetto e pittore, e come tale raffigurò nei suoi affreschi le colli­ne e il castrum di Montecarlo.

Il Vasario 2008 è un Igt ottenuto vinificando in purezza uve di Pinot Bianco. Era nato come blend di Pinot Bianco con un pizzico di Sauvignon Blanc, poi è stato un Pinot Bianco al 100% per un certo periodo, quindi è tornato in abbinamento con il Sauvignon fino all’anno scorso. Il 2008 è la prima vendemmia con la quale i Fontana, nuovi proprie­tari dell’azienda, hanno deciso che si tornasse al monovi­tigno. L’alternarsi delle due versioni ha il suo motivo nell’esigenza di far esprimere anche al Vasario la filoso­fia del territorio, che ha sempre concepito i propri vini bianchi con una nota aromatica in evidenza.

Anche se adesso è fatto con una sola varietà d’uva, il Va­sario non è un vino semplice da realizzare: una parte non tocca legno, una parte invece fermenta a matura in barrique di rovere di Allier, restando sulle fecce nobili per nove mesi; una parte non fa la malolattica, una parte sì. Svi­luppa il 14,5% di alcol e ha il colore giallo paglierino con riflessi dorati dei bianchi di maggior impegno. Profumo molto intenso, complesso, con sentori floreali, direi di ginestra, e note fruttate, sulle quali prevale la pesca bianca, che si direbbe l’autentico marchio del territorio, con le spezie in sotto fondo: io ci sento pepe e sensazioni vanigliate di rovere.

A Montecarlo si fanno anche vini rossi, e il mitico Giulio Magnani, alla fine del 1800, si preoccupò di rendere più interessanti pure quelli importando in Lucchesia barbatelle di Cabernet Sauvignon e Merlot dal Bordolese e soprattutto di Syrah dalla valle del Rodano. Nel Montecarlo Rosso 2009 prodotto dalla Fattoria del Buonamico ci sono tutt’e tre, queste uve, e rappresentano il 15% della composizione. Il 10% è di Canaiolo, mentre il Sangiovese è presente per il 75%.

Viene vinificato in acciaio inossidabile a temperatura con­trollata e matura in botte grande per circa due mesi. Se ne fanno, se non vado errato, 30 mila bottiglie all’anno. Ha una gradazione alcolica del 13%. Il suo colore è quello dei vini netti e fragranti, rosso rubino con riflessi violacei. Naso intenso e schietto, di frutta fresca, segnatamente di ciliegia, anzi di marasca. In bocca manifesta una struttura più consistente di quel che farebbe supporre il colore, una sottile aromaticità gli conferisce dignità espressiva men­tre la presenza tannica ne sottolinea la giovinezza senza incrinarne la piacevolezza gustativa.

Tenete presente che questo è il rosso base. Il prossimo as­saggio è invece di una storica selezione: un vino composto con le uve migliori dei vigneti aziendali, tutti situati in località Cercatoja e che perciò porta questo nome. Fu rea­lizzato per la prima volta su questo schema nel lontano 1975, ma dieci anni dopo fece un salto di qualità grazie ad accurati diradamenti in vigna e soprattutto alla maturazio­ne in legno piccolo.

Il Cercatoja 2007 è un Igt Toscana (che diventerà Montecar­lo Riserva Doc, con il prossimo disciplinare) in cui il Sangiovese conta per il 40%, mentre Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah contribuiscono con il 20% ciascuno. E’ un rosso vinificato in acciaio inox a temperatura controllata che matura per circa 18 mesi in barrique di rovere francese ed esprime il 14,5% di alcol. Se ne fanno, credo, circa 3.500 bottiglie all’anno. E’ di color rubino intenso, pro­fondo. All’olfatto ha piacevolissimi sentori fruttati di lampone e ciliegia, floreali, soprattutto di viola, e spe­ziati, di cacao e vaniglia. Al palato è di bella struttura, ampio, perfino denso, con ricco e fine tannino in evidenza, eppure equilibrato e gradevole.

Ma alla Fattoria del Buonamico non si son fatti mancare proprio niente: nella loro gamma hanno anche un cru, messo a punto per la prima volta con la vendemmia 1990. Si chiama Il Fortino, dal nome della vigna che gli dà vita, nella quale i cloni di Syrah importati dalla Francia a fine 1800 sono stati impiantati nel 1964: sono 700 viti che hanno quasi mezzo secolo, probabilmente le più vecchie di questa varietà esistenti in Italia, da cui si ricavano ogni anno 1500 ricercatissime bottiglie al massimo.

Eccolo allora nel bicchiere, Il Fortino 2007 Igt Toscana, Syrah in purezza vinificato in acciaio a temperatura con­trollata e affinato in barrique francesi per circa 18 mesi, che sviluppa il 14,5% di alcol. Color rubino di eccezionale densità antocianica, non nasconde la stretta parentela con i Syrah del Rodano che manifesta anzi con i suoi affasci­nanti sentori di marasca, ribes nero, prugna, confettura di more, e con vivaci toni di pepe. Maestoso ma suadente in bocca, manifesta con la fitta trama di tannini in assesta­mento la sua propensione alla longevità, che affronterà, si intuisce, senza perdere freschezza.

Infine una autentica rarità, il Montecarlo Vin Santo 2002, 500 preziose bottiglie all’anno da mezzo litro ciascuna, ma con una caratteristica che va rimarcata: poiché il Vin San­to è una tipologia di vino esclusivamente italiana, in Francia non esiste, la Fattoria del Buonamico lo ottiene vinificando unicamente uve autoctone. Senza rinunciare però a quel pizzico di originalità che è la sua caratteristica: se l’85% della composizione è assicurata da Trebbiano e il 5% da Malvasia, il restante 10% è fornito da un’uva minore pressochè sconosciuta, la Colombana.

Vengono scelti i grappoli più spargoli e messi ad appassire per 4 mesi in stanze ben ventilate appesi ai fili o posti su graticci. La loro fermentazione è forzata perché ha luo­go in piccoli caratelli di rovere riempiti per 2/3 e sigil­lati, dove il vino resta anche a maturare per tre anni. As­semblato e imbottigliato, si affina in vetro per almeno un anno, prima d’essere messo in commercio.

Quello che assaggiamo è della vendemmia 2002, sviluppa il 15% di gradazione alcolica e contiene 250-300 grammi di zuccheri indecomposti, con un’acidità totale di almeno 5 grammi per litro. Più che giallo dorato, il suo colore è ambrato. L’appassimento delle uve e la lunga permanenza in legno gli hanno conferito un bagaglio olfattivo estremamen­te variegato: vi si avvertono, mi pare, caramello, cotogna­ta, arancia candita, frutta secca. Una timida freschezza riequilibra la densità glicerica, mentre hanno lunga persi­stenza le sensazioni di mandorla secca e i toni boisé.

Cesare Pillon

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